In questi giorni ha fatto molto discutere la dichiarazione del ministro Fornero secondo la quale il lavoro non sarebbe un diritto. In effetti, per la nostra conformazione mentale, è il lavoro che ‘nobilita l’uomo’ (ricordate dov’era scritto?) e spesso facciamo molta fatica a distinguere ciò che siamo dalla professione che esercitiamo.

Chi ha un lavoro, soprattutto oggi, è ritenuto molto fortunato. Passiamo una buona parte del nostro tempo a lavorare è chi ha un’attività in proprio spesso afferma, con una buona dose di soddisfazione, di non avere orari. Perdere il lavoro equivale, soprattutto per il sesso maschile, a perdere la propria dignità e la propria identità e del resto ci indigniamo se sentiamo negarci il ‘diritto’ a farlo.

Eppure, se ci ascoltiamo attentamente, c’è una nota che stona e faremmo bene a dare ascolto a questa dissonanza prima che sia troppo tardi.

 

A questo proposito potrebbe essere un salutare schock leggere ciò che afferma Bonnie Ware, un’infermiera australiana che per anni ha assistito malati terminali nelle ultime 12 settimane di vita. Nel suo libro e nel suo blog ha pubblicato una lista dei 5 rimpianti più frequenti raccolti in punto di morte (qui tradotti in italiano). Il primo rimpianto è “Avrei voluto avere il coraggio di vivere la mia vita, invece che la vita che gli altri si aspettavano da me”. Il secondo, invece “Vorrei non aver lavorato cosi duramente”. Molto interessante è il commento dell’autrice a questo rimpianto:

Ogni singolo maschio a cui ho fatto da infermiera mi dice questo. Hanno perso la gioventù dei loro figli e la compagnia della partner. Anche le donne hanno lo stesso rimpianto… Tutti gli uomini rimpiangono molto di aver corso cosi tanto nella ruota del cricreto.

Arriviamo al termine della nostra vita e ci accorgiamo di aver fatto qualcos’altro, ma non quello che realmente era essenziale per definirla vita, di aver dedicato tutti i nostri sforzi e le nostre energie ipnotizzati da un obiettivo che, proprio come se stessimo correndo nella ruota del criceto, è rimasto sempre imprendibile e a ben vedere non sappiamo nemmeno perché appaia così importante.

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Dunque, correggiamo: il lavoro non è un diritto, ma una necessità. Ma anche questo deriva dalla nostra architettura culturale di cui non riusciamo a concepire l’esterno. In realtà, abbiamo bisogno di denaro, un continuo flusso di denaro: per sopravvivere, mantenere una famiglia, comprarci una casa e – dicono, ma non è provato – anche per essere felici, o perlomeno per poter “piangere sul sedile posteriore di una Cadillac”.

Ci è stato anche insegnato che esistono pochi modi per soddisfare questa nostra esigenza: o siamo già ricchi di famiglia, o dobbiamo lavorare sodo. Qualsiasi altra ipotesi è spesso archiviata come sospetta o non lecita.

La realtà è che spesso non sapremmo cosa fare se non dovessimo lavorare per soddisfare la nostra esigenza di denaro. Sì, certo, se ci venisse chiesto, avremmo un elenco interminabile di destinazioni da visitare e di cose che vorremmo fare, ma è altrettanto vero che sovente il lavoro è un alibi per non prendersi le libertà che potremmo avere (sì, non è un segreto: la libertà fa molta paura, perché non c’è nessuno che ci dica cosa fare).

Ecco: in questo blog dedicato alla libertà finanziaria e alle rendite automatiche, ritengo che questo sia un passo preliminare indispensabile. Altrimenti si tratterebbe solamente di ‘cambiare ruota’, ma rimanere dei criceti. Quali sono dunque le alternative? Presto ne parleremo. Nel frattempo, qualsiasi commento è bene accetto.

PS: quali sono gli altri tre rimpianti in punto di morte? Eccoli:

  • 3. Mi sarebbe piaciuto avere il coraggio di esprimere i miei sentimenti.
  • 4. Avrei voluto tenere i contatti on i miei amici.
  • 5. Mi sarebbe piaciuto permettere a me stesso di essere più felice.

Meglio vivere di rimorsi che di rimpianti